BIOGRAFIA

Nato a Trento nel 1990, Mattia Cozzio attualmente vive e lavora tra Carisolo e Borzago, un piccolo paese della Val Rendena.

Attratto fin da giovane dall'arte nelle sue variegate espressioni, la pittura, la scultura e la musica, con il tempo, perfezionando l'innato talento, trasforma questi interessi in vere e proprie passioni.
Frequentato il liceo artistico U.Boccioni di Verona, Mattia Cozzio conclude gli studi superiori presso I'istituto d'Arte A. Vittoria di Trento.

Seppur ancora molto giovane, già intensa è la sua attività espositiva con la partecipazione a numerose mostre collettive e personali.

Critiche
ottobre 2017
LINEA INQUIETA tracce d'avanguardia nel contemporaneo dal FUTURISMO al DADAISMO
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Il più giovane tra gli artisti presentati, Mattia Cozzio, affronta con serietà il tema dell'identità che e sempre rivelatore di una ricerca esistenziale condotta sul proprio sé; e lo fa nella maniera ortodossa, servendosi delle proprie mani che impugnano gli strumenti del disegno e della pittura. Eppure il risultato delle sue opere non è affatto prevedibile e ortodosso poiché l'artista riversa una fitta costellazione di riferimenti visivi che dalla tradizione precipitano nel linguaggio mediatico, musicale e anche talvolta fumettistico della cultura giovanile. Le immagini sono ottenute con sovrapposizioni di ritagli, disegni e campiture cromatiche. Le superfici brulicano di dettagli e non concedono tregua all'occhio dell'osservatore. Un Horror vacui post-atomico. Un Blob fagocitatore all'interno del quale sono costrette al contatto le cellule impazzite della comunicazione. La casualità dadaista si mostrava nelle forbici da taglio, mentre in questo caso è piuttosto lo zapping, il pigiare casuale sui bottoni del telecomando televisivo a produrre incongruenti immagini che vengono addomesticate dalla logica dell'artista. Ma a differenza dello zapping televisivo, qui le immagini non appaiono in successione, bensì in sincronicità (con lo studio della lezione futurista) assiepate sul medesimo supporto.

di Paolo Dolzan
giugno 2019
Inquietudine e mistero nell'opera di Mattia Cozzio
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“Mentre l’imperatore fissava il suo volto riflesso nello specchio esso divenne prima una macchia
rosso sangue e poi un teschio… L’imperatore si girò inorridito.
“Vostra Altezza”, disse Shenkua, “non rivolga altrove lo sguardo. Lei ha semplicemente visto il
principio e la fine della sua vita. Continui a fissare lo specchio e vedrà tutto ciò che è e che può
essere. E quando avrà raggiunto il più alto grado di stupore, lo specchio stesso le mostrerà quelle
cose che non possono esistere…”
Ching Nung “Tutto intorno agli specchi”
Collocata dal fisico, scrittore e divulgatore scientifico Hans de Rijk, più noto con lo pseudonimo
Bruno Ernst, come incipit al suo imponente studio sull’opera del grande incisore e grafico olandese
Maurits Cornelius Escher scomparso nel 1972 e considerato da molti critici un caso pressoché unico

della creatività umana per la sua razionale costruzione di mondi impossibili, questa breve citazione
ben introduce anche nell’affascinante universo pittorico di Mattia Cozzio, giovane artista trentino
dotato di grande fantasia, estrema sensibilità e profonde capacità introspettive. Interessato all’arte e
alla musica fin dalla giovane età, perfezionati i suoi naturali talenti con gli studi artistici, Cozzio da
molti anni ormai si dedica con passione e costanza all’attività pittorica.
Dotato di notevoli abilità tecniche e spinto dall’inesauribile voglia di sperimentare nelle sue opere
modalità espressive ed esecutive sempre nuove, l’artista di Carisolo compone, senza alcun disegno
preparatorio, veri e propri mondi alternativi che sfidano l’osservatore a superare ogni convenzione e
ad annullare i limiti dei propri sensi. Virtualmente ed impietosamente frantumata la realtà in mille
schegge impazzite, come in un diabolico caleidoscopio, Mattia Cozzio, con certosina pazienza,
accosta, frammento dopo frammento, i brandelli di un mondo che non è più per delineare ordinati
ma improbabili, claustrofobici universi dal vago sapore escheriano, sospesi nel tempo e nello
spazio, riflessi palesi della spasmodica tensione esistenziale dell’uomo contemporaneo.
Come in un puzzle senza fine, tra i segni, tra i tasselli colorati a penna o i frammenti di collage
ottenuti da Cozzio sacrificando sue precedenti opere in un perenne ciclo di distruzione e rinascita,
metafora dell’umana esistenza, gli occhi dell’osservatore, in futuribili agglomerati privi di logica
prospettica, forse raffinata citazione di misteriose città yemenite, ricercano delle presenze, dei volti.
Questi emergono, deformati, grotteschi, angosciati e angoscianti, come aliene presenze o labile
riflesso dei pallidi fantasmi che popolano l’umano subconscio, rivelando il profondo interesse del
pittore per il volto umano, ed in particolare, per il ritratto che, da sempre, permette all’espressione
creativa di esplorare lo stretto rapporto tra arte e psicologia, tra realtà e inconscio. Un interesse
profondo, quello dell’artista trentino, quasi una spasmodica ricerca della propria identità psichica e
dei suoi aspetti più reconditi che, ricordando le bizzarre, grottesche fisionomie presenti in numerosi
disegni e incisioni leonardesche o in alcuni dipinti del suo contemporaneo, il visionario Hieronymus
Bosch, o le incredibili “teste di carattere”dello scultore settecentesco bavarese Franz Xavier
Messerschmidt o ancora i tormentati autoritratti di Egon Schiele o l’angoscia nei volti di Edvard
Munch, ripropone, memore della lezione freudiana e della successiva decostruzione picassiana, il
volto dell’uomo come specchio dei propri interiori tormenti.
Assolutamente da non trascurare inoltre l’interesse dell’artista trentino per ieratiche composizioni
dal sapore metafisico o per paesaggi astratti chiaro omaggio al grande pittore svizzero Paul Klee in
cui segni e colori dal forte potere evocativo rappresentano con assoluta libertà espressiva il mondo
delle forme e quindi della realtà.
Un artista giovane Mattia Cozzio, ma, come sopra ampiamente indagato, attento fruitore della
lezione dei grandi autori del passato e del presente che egli cita con garbo ed eleganza fondendo, in
un linguaggio pittorico assolutamente originale ed immediatamente riconoscibile, elementi cubisti
con un sentire tipicamente espressionista non trascurando le forti, dolorose, esperienze di autori
contemporanei come i pittori e writers newyorkesi Keith Haring e soprattutto Jean – Michel
Basquiat che, come Cozzio univa la passione per la pittura a quella della musica.
Evidenti inoltre nelle opere dell’artista trentino le suggestioni per il variegato mondo dei comics ed
in particolare per creativi come il grande fumettista e sceneggiatore americano Frank Miller o,
ancora, per il subliminale, sincopato linguaggio dei media e per gli stilemi ancora in essere dell’era
digitale che hanno innegabilmente rivoluzionato le modalità dell’atto comunicativo a livello globale
imponendosi prepotentemente anche nell’espressione artistica giovanile contemporanea.

Di Nicoletta Tamanini
settembre 2019
ONIRICA
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MATTIA COZZIO / ONIRICA di Paolo Dolzan Attraverso le opere dipinte da Cozzio, incappando e ricambiando gli sguardi dei tanti personaggi che affiorano dalla superficie, la linea divisoria tra il mondo onirico e lo stato di veglia si tratteggia, rendendo il passo dell'osservatore più incerto. Quale lontana colonia di uomini si è assiepata nella fantasia dell'artista, quante ipotesi psicoanalitiche potrebbero svilupparsi lungo le pieghe precise e sottili dei volti, quanti caratteri del comune uomo di strada nel quale ci imbattiamo senza soffermarci si raggrumano, con la colla ossessiva dell'osservazione di Mattia sulla vita, sulla filigrana delle carte e delle tele? Questo giovane artista si è conquistato, un passo dopo l'altro, la capacità di fare sintesi di variegati codici della rappresentazione visiva: la geometria ordina i luoghi delle apparizioni, rende misurabili gli spazi del sogno. La composizione è sintesi della contrapposizione di un segno analitico, grafico, freddo, che ha però il suo approdo nell'espressionismo. Mattia non manca neppure i rintocchi del metronomo che misura i tempi della sua generazione, dove sono sviluppati con familiarità i luoghi musicali della più attenta sperimentazione sonora e quelli dei graffiti metropolitani. L'anima di Mattia Cozzio non si manifesta come apparizione “giovane”, perché egli è alla ricerca di quel cortocircuito che mescola gli ingredienti della vita vissuta, con quelli della storia scritta; lo stato di sonno a quello di veglia. Nell'intercapedine dello spazio- tempo, Cozzio cerca la breccia tra il vero e il falso. Ciò che oggi porta sulle spalle come fardello di pratica che non è ancora terminata, domani si trasformerà in ali forti e capaci di elevare il punto di osservazione sempre più alto: allora alzare lo sguardo oltre l'orizzonte significherà impadronirsi delle forze reattive di un decollo verticale. Le differenze tra la spinta verticale e quella orizzontale, tra la veglia e il sonno, saranno un giorno circoscritte in un segno chiuso e deciso tracciato dall'artista. Se oggi nelle sue raffigurazioni troviamo già la visione capace di abbracciare senza escludere, cioè la forza necessaria alle gambe per scavalcare il fosso dei pregiudizi, tuttavia, vorremmo chiedere altro. Noi vorremmo che il salto sospendesse la gravità che lo precipita. Ma noi non abbiamo fretta. I personaggi dipinti da Mattia troveranno a loro volta la giusta messa a fuoco allo specchio. Il futuro che li attende, fuori dal sogno, svegliati ai furori degli incubi è quello di vivere per volare. VIVI, VOLA, SOGNA, Mattia.
dicembre 2019
CONOSCI TE STESSO
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«Vedo sì, Prometeo, e voglio darti il consiglio migliore, anche se tu sei già astuto. Devi sempre sapere chi
sei e adattarti alle regole nuove: perché nuovo è questo tiranno che domina tra gli dèi. Se scagli parole così
tracotanti e taglienti, subito anche se il suo trono sta molto più in alto, Zeus le può sentire: e allora la mole di
pene che ora subisci ti sembrerà un gioco da bambini.»
(Eschilo, Prometeo incatenato)
L'esortazione «Conosci te stesso» è una massima che nell’antichità era incisa sulla
facciata del tempio di Delfi; è una sentenza del dio Apollo che intima agli uomini di
misurare la propria limitatezza e finitezza e la si può dunque intendere come un invito alla
prudenza e alla modestia, come il consiglio di inforcare la via dell’equilibrio, centrando
l’istante in cui le oscillazioni del pendolo della vita non sono ancora caricate della loro
traiettoria. Le scuole gnostiche, però, declinano la lezione di Apollo secondo un’altra
interpretazione: il sé rappresenta la porta di accesso che conduce alla rivelazione di dio,
poiché prodotto della medesima sostanza; esso è anche il dáimōn, la divinità minore: - il
divino Daimon è il riflesso di Dio nella nostra interiorità qui ed ora e può conferirci il potere,
la saggezza e la corrispondenza divina “Eritis sicut dei / sarete come dèi ” 1 - .
Conoscere sé stessi significa, innanzitutto, essere capaci di sostenere con lo sguardo la
luce abbagliante del demone / Lucifero / Prometeo che irradia dentro di noi. La luce è la
radiazione luminosa del fuoco trasmutatorio che distilla le nostre esperienze di vita, le
nostre continue oscillazioni tra gli opposti e gli eccessi, esperienza che è necessaria
affinché sia possibile poi intuire gli spazi che ci separano dal nostro punto di equilibrio
individuale ed esclusivo.
In altre occasioni ho già espresso delle riflessioni che sottolineavano l’importanza della
pratica artistica come mezzo di introspezione, quando essa si libera dalle distrazioni
indotte dalla vanità, dai limiti imposti dal gusto comune e dai contratti sociali. In questa
circostanza, possiamo confidare nella condotta di lavoro e nei risultati della ricerca
intrapresa da Mattia Cozzio e non dubitare ch’egli abbia inforcato la strada giusta.
Le sue opere trattano specialmente il tema dell’”identità” e, seppur ancora giovane, l’artista
prova a sviscerare con tenacia e coraggio l’arduo tema, che anche quando si coniuga
all’analisi della realtà esterna nell’osservazione dell’altro o dell’altrove è, innanzitutto,
innestato nel solco sotterraneo dell’autoanalisi. Nella sperimentazione artistica l’età
anagrafica passa in secondo piano, anche perché spesso le fatiche degli anni ossidano la
libertà espressiva all’interno di stereotipi auto-fabbricati. Nei dipinti di Cozzio la sua anima
non si manifesta come apparizione “giovane”, quando egli è alla ricerca di quel
cortocircuito che mescola gli ingredienti della vita vissuta con quelli della storia scritta, lo
1 Maestro Samael Aun Weor “La dottrina segreta di Anawak”, 1974
stato di sonno a quello di veglia, egli opera con maturità. Nell'intercapedine dello spazio-
tempo, l’artista sembra cercare la breccia che separa il vero e il falso. Ciò che oggi porta
sulle spalle come un fardello di pratica che non è ancora terminata, domani si trasformerà
in ali forti e capaci di elevare il punto di osservazione sempre più alto: allora alzare lo
sguardo oltre l'orizzonte significherà impadronirsi delle forze reattive di un decollo
verticale.
Le differenze tra la spinta verticale e quella orizzontale, tra la veglia e il sonno, saranno un
giorno circoscritte in un segno chiuso e deciso tracciato dall'artista.
Già oggi, nelle raffigurazioni dai contorni precisi e duri di Mattia Cozzio, scorgiamo
l’intenzione di abbracciare senza escludere, ed egli possiede la forza necessaria nelle
gambe per scavalcare il fosso dei pregiudizi, tuttavia, vorremmo chiedere altro. Noi
vorremmo che il salto sospendesse la gravità che lo precipita.
Attraverso i suoi dipinti, incappando e ricambiando gli sguardi dei tanti personaggi che
affiorano dalla superficie, la linea divisoria tra il mondo onirico e lo stato di veglia si
tratteggia, rendendo il passo dell'osservatore più incerto. Quale lontana colonia di uomini
si è assiepata nella fantasia dell'artista, quante ipotesi psicoanalitiche potrebbero
svilupparsi lungo le pieghe precise e sottili dei volti, quanti caratteri del comune uomo di
strada nel quale ci imbattiamo senza soffermarci si raggrumano, con la colla ossessiva
dell'osservazione di Mattia sulla vita, sulla filigrana delle carte e delle tele?
Un passo dopo l'altro, la capacità di fare sintesi di variegati codici della rappresentazione
visiva: la geometria ordina i luoghi delle apparizioni, rende misurabili gli spazi del sogno.
La composizione è sintesi della contrapposizione di un segno analitico, grafico, freddo,
che ha però il suo approdo nell'espressionismo. Mattia non manca neppure i rintocchi del
metronomo che misura i tempi della sua generazione, dove sono sviluppati con familiarità i
luoghi musicali della più attenta sperimentazione sonora e quelli dei graffiti metropolitani.
L’artista riversa una fitta costellazione di riferimenti visivi che dalla tradizione precipitano
nel linguaggio mediatico, musicale ed anche talvolta fumettistico della cultura giovanile. Le
immagini sono ottenute con sovrapposizioni di ritagli, disegni e campiture cromatiche. Le
superfici brulicano di dettagli e non concedono tregua all’occhio dell’osservatore.
Mattia Cozzio alla ricerca dell’identità, cammina sotto un cielo rosso e crepitante, tra le
rovine di ombre, dai contorni ritagliati dei suoi collage, in un horror vacui post-atomico…
Nel gioco casuale dadaista era la forbice a fare a pezzi le immagini e le parole, in questo
caso è piuttosto lo zapping, il pigiare casuale sui bottoni del telecomando mnemonico-
televisivo a produrre incongruenti immagini che vengono addomesticate dalla logica
dell’artista. Le immagini interrotte aboliscono la sequenza e ci appaiono in sincronicità
assiepate sul medesimo supporto, come un blob ingrassato con le cellule impazzite della
comunicazione.
In una recente opera intitolata “Vanitas” gli elementi simbolici della tradizione appartenenti
al genere della Natura Morta ci appaiono collocati con cura in uno spazio che si spalanca
sul vuoto siderale.
Le tonalità sono riposanti ed anch’esse distribuite con cura: violetto, giallo tenue, bianco
ghiaccio, nero ritmano il caldo-freddo. Ciascun oggetto e forma sono tratteggiati con
precisione e disposti secondo un itinerario visivo che ci permette di visitare i pensieri
dell’artista. Il centro della composizione è occupato dal cranio bovino, collocato tra la
candela e la clessidra, sopra la quale svolazza una farfalla. Morte, verità, speranza
turbinano nel vortice del tempo, inafferrabile nella sua relatività. La fiamma della candela
che nella tradizione simboleggia il “carpe diem” e il fuoco sacro della verità, è accostata
alla moderna lampadina elettrica. I tempi moderni brillano e hanno ormai offuscato gli
ideali antichi – sembra suggerirci Cozzio – ma tutto ciò si è svolto limitatamente nella
dimensione della memoria umana e questo fatto inaccessibile non turberà il volo della
farfalla.
Molti altri elementi affollano la composizione seppure ci appaiono secondari: piccole
piramidi, stilizzazioni di alberi, una sfera di cristallo per pratiche negromantiche e
divinatorie (oppure forse, una bolla di sapone, simbolo sia della transitorietà della vita sia
della transitorietà dei beni terreni); un pennino e un calamaio che non hanno ancora
tracciato glifi sulle pagine vuote di un libro aperto. Infine, in basso a sinistra, una conchiglia
che è simbolo dell’eterno femminino, la stessa che si dischiuse alla nascita di Venere.
Anche in un’opera meditata nella sua ampia simbologia, si propone nuovamente, dunque,
il tema dell’identità: simboleggiando la caducità della vita, il tema della Vanitas è da
sempre associato allo specchio, oggetto che riflette l’immagine e che ha un rimando alla
contemplazione, ma anche al narcisismo.
La strada percorsa dall’artista è quindi al suo bivio e propone le due direzioni, quella
stretta e tortuosa della ricerca esistenziale e quella ampia e scivolosa della mondanità.

Di Paolo Dolzan
dicembre 2019
Del Visibile Vedere Le Cose Dell'Anima
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Il dono dell’immagine consiste nel fornirci
un luogo da cui osservare la nostra anima,
vedere con precisione che cosa fa.
James Hillman
Quando il mondo invecchiò e lo stupore abbandonò le menti degli uomini; quando grigie città
alzarono al cielo torri cupe e spaventose all’ombra delle quali nessuno poteva sognare il sole o i
prati di primavera; quando la sapienza rubò alla terra il mantello della sua bellezza e i poeti non
cantarono più, se non di fantasmi contorti e dagli occhi ciechi che guardavano solo dentro se
stessi… quando avvennero queste cose e le speranze della fanciullezza si furono dissipate per
sempre, un uomo fece un viaggio oltre la vita e compì una ricerca negli spazi da cui i sogni del
mondo erano fuggiti.
Howard Phillips Lovecraft, Azathoth
L’orlo, la cornice, non è soltanto la fine dell’opera prima di affacciarsi sul vuoto. La cornice, come
il muro, serve a tener fuori le intemperie del mondo e, allo stesso tempo, tener dentro le
perturbazioni dell’Io e dell’Anima. La fine spaziale del lavoro impedisce lo sfilacciarsi dei
sentimenti, la dispersione, il caos dell’inizio e del termine delle cose. Le metafisiche case dalle
finestre come occhi vuoti – nessuno, se non l’artista, sa cosa sta laggiù in fondo, quale bestia,
pensiero o tragedia si annida nelle profondità dell’Essere – si stringono tra di loro, accatastandosi
una sopra l’altra, calpestandosi, respirando velocemente per impedire alla pausa di lasciar trapelare
il pensiero. Case, torri, campanili, montagne o obelischi: nessuno è uguale ad un altro. Magari ad
una prima occhiata superficiale sembrano simili ma invece, a ben osservare, rispondono all’umana
bramosia di descrivere una cosa che non assomigli a nessun’altra sulla terra (ce lo ricorda Vladimir
Nabokov, Un mondo sinistro). Così come non sono simili gli elementi di cui è composto il mondo
visivo dell’artista, un mondo introspettivo, escludente, egoista, narcisista.
Triangoli, quadrati, rettangoli, piramidi. E noi, spettatori, possiamo soltanto immaginare cosa ci sta
sotto e dentro: labirinti, meandri, intrecci e serpentine, dove l’Io si frammenta impedendo ogni
ricomposizione. È inutile ogni alchimia, niente può trasformare questo paesaggio architettonico in
un paesaggio della natura. Nemmeno i due occhi occhialuti e la bocca spaventata aperta come fosse
una porta che si affaccia sull’indeterminato ci potranno rassicurare.
Mattia Cozzio mette in scena una città gravata da un mistero permanente, concepita come un
mosaico di ruderi, di antichità, di avanzi decrepiti e corrosi del passato, tratti dai più famosi angoli
del mondo. In questa città si muovono strani personaggi: qualcuno è in carne ma la maggior parte
delle volte sono soltanto ossa e orecchie. Sono figure spinte da una musica di cui non riusciamo a
comprendere il senso e il segno pentagrammatico: forse per questo l’uomo strabuzza gli occhi
facendoci intravedere una spirale senza fine, pronta ad ammaliare e a trascinare nell’orrido fondo
dell’anima.
È una città artificiale, una messinscena perfetta, nella quale si muove una popolazione di nostalgici,
di nevrastenici, di gente che fugge la vita del suo tempo e preferisce crogiolarsi in stati d’animo e
sensazioni tra il mistico e l’estetizzante, tra il poetico e il morboso.
Si fa difficoltà a comprendere questa pittura, ad inserirla all’interno del fluttuante e fragoroso fiume
dell’arte. Scorrendo le bottiglie morandiane, scrutando le facce deformi, scandagliando – uno ad
uno, come fossero innumerevoli microcosmi – i frammenti cubisti di visi impalliditi, ci sovviene il
mondo claustrofobico di Howard Phillips Lovecraft e le sue città di rovina, i suoi abitanti frutto di
metamorfosi che non conoscono i confini tra biologia e fisica, tra geografia e architettura, tra
mondo di qua e mondo di là.
In questo mondo pullulante di forme, nessuno sa in che modo questi uomini stupefatti dalla propria
ombra riescano a rimanere in questa parte della terra, ovvero dentro la cornice, dentro l’orlo, e non
scivolino fuori, come tante sagome indistinte e evanescenti accompagnandoci per giorni e giorni,
finché, improvvisamente, ci abbandoneranno, precipitandoci nella morte. Forse per questo l’artista
tiene la luce sempre accesa, per non farsi prendere alla sprovvista. La cultura ebraica, che vive nella
e della parola, con i suoi esegeti, studiosi di cabala e rabbini, al contrario di chi ha perso l’incanto
non ha dimenticato che tre giorni prima di morire l’ombra ci abbandona. Mi piace pensare che
l’ombra non ci lasci del tutto soli ma che ci preceda, ci prepari l’altra dimora, quella forse più
accogliente e più umana.
Ecco l’importanza dell’orlo. Tiene dentro. E in quel dentro Mattia Cozzio trasforma il visibile
parlare e pensare in colori, segni, forme, volumi. Come faceva Egon Schiele, di cui le angolosità
fisiche traspaiono tra le geometrie dell’Io.
Il rapporto tra due potenze della mente dell’artista – il segno e il colore – è incessante, per niente
naturalistico, assolutamente sfuggente da ogni verismo. Ci vuole perizia letteraria per inseguire
queste “vie” parallele, questo continuo passaggio tra la figura e l’architettura che arriva a fondere i
soggetti, con facce e visi che assumono forme architettoniche e palazzi, torri e cupole che diventano
orbite di occhi apparentemente spenti.
La pittura occidentale, a partire dagli inizi del XV secolo, rende la rappresentazione assoluta, tende
ad affermare in modo radicale l’unità dell’immagine nel suo aspetto di specchio del visibile. Il
nostro artista fa qualche cosa di più, un passo in avanti, uno di lato, uno indietro, uno in basso e uno
in alto: lo specchio è quello dell’Io e l’immagine che si riflette non è omogenea, intera, uniforme,
compatta (e quale lo è?), ma frammentata, lacerata, tormentata, talvolta straziata. Perché l’artista
che ha perduto l’anima ha perduto il senso di appartenenza sociale e il senso di comunione con le
potenze e con gli Dei. E, comunque, egli è sempre e continuamente alla ricerca disperata
dell’Anima: nonostante l’Io si perda tra le case e le piramidi, si frammenti in tanti multipli, si
specchi in un sottile gioco di rimandi continui tra sé e sé e si sdoppi nel viso attonito e nella camicia
aperta, tutto ciò non serve a razionalizzare la propria esistenza e l’angoscia rimane.
Perché l’artista cerca calore, luce, virtù, il papillon colorato, le orecchie marroni perché non
colorate, le foglioline verdi che dialogano con il cielo stellato. L’io è egoistico, narcisistico,
escludente, dispersivo. Non dobbiamo rincorrere le nostre multiple personalità, pena la dispersione
e la maledizione. È una corsa vana. È preferibile svoltare al primo incrocio e darsi alla “cerca”, alla
ricerca di quei momenti diversi in cui l’anima produce la sua varietà di semi in maggiore o minore
profusione. In questo ci aiuta Marsilio Ficino quando, nel Commentario sopra il Fedro di Platone,
indaga l’anima. Allora l’idea che soggiace a queste opere è l’intendere come mito e come poesia
ogni frammento della vita e ogni sogno. Perché la fantasia è l’attività primaria dell’anima. E il
suono che accompagna queste opere, un suono atonale che non tutti riescono a cogliere, è il leit
motiv di una vita, il la dato dal diapason, il giro di do dei King Crimson (Island) o del più genuino
Bob Dylan.
La dubbiosa scimmia proiettata sul palcoscenico fumettistico di un cosmo allucinato e allucinatorio
– l’artista strizza l’occhio al fumetto, quel mondo la cui fantasia è oggi superata, purtroppo,
dall’attualità e dalla cronaca – è consapevole di far ridere. Quando qualche autore menziona le
scimmie, il riferimento è di solito negativo; ma questa è una scimmia che sa evitare astutamente il
lancio dei giavellotti; se avessi la coda sarei un cercopiteco (Marziale, Apophoreta). È una
scimmia dubbiosa, forse un po’ spaventata, sicuramente è un personaggio e, se diamo ascolto al
Ramayana, è un animale sacro e simbolo elevato della vocazione missionaria, incarna le massime
virtù d’eroismo e di fedeltà. Al servizio di Rama. Al servizio dell’artista che aiuta a girovagare nelle
profondità dell’Essere, ad andare in profondità, giù, giù nell’Anima, oltre l’Io, oltre il cubismo, il
fumetto, la metafisica morandiana, oltre il grafismo pubblicitario. Giù, ai confini dell’abisso, dove
vigono le vertigini, perché gli archetipi non vivono nell’altezza né nell’ampiezza. Respirano con il
mondo, sono metafore, simboli, allegorie. Perché, e ben lo ha compreso Mattia Cozzio, gli archetipi
non possono essere narrati, non giocano nei campi letterari, ma possono essere descritti con
immagini. Gli archetipi ci obbligano a un discorso di stile immaginativo. In questi lavori l’Io ha
subito scacco matto, a favore dell’immaginazione utilizzata come mezzo per accostarsi agli
interrogativi fondamentali della vita.

Fiorenzo Degasperi